La vicenda di Narciso, seppure a grandi linee, è nota**. Ci riferiremo alla versione di Ovidio, terzo libro delle Metamorfosi (traduzione di Guido Paduano, Einaudi 2000). Appena nato, ricorda il poeta latino, fu «subito oggetto d’amore» e giunto a sedici anni «sembrava ugualmente un uomo o un ragazzo». Era talmente bello che lo desideravano entrambi i sessi. Fascinoso, inseguito, sfuggente, Ovidio coglie in lui una «dura superbia». La usò come una corazza e per questo «non arrivò a toccarlo nessun giovane e nessuna ragazza».
Un giorno, mentre era a caccia di cervi, incontrò la ninfa Eco, una creatura singolare. In accordo con Zeus, re e padre degli dei, ella teneva occupata Era, la Giunone dei latini, sovrana dell’Olimpo. Le parlava senza sosta, in modo da consentire al grande dio di intrattenersi con altre ninfe. Ma ben presto venne scoperta. E allora la povera Eco subì dalla dea una condanna. Le parole, riportate da Ovidio, non lasciano attenuanti: «Farai poco uso della lingua che m’ha ingannata, e avrai voce brevissima». A quel punto la ninfa non riesce a fare altro: «Raddoppia le ultime parole e ripete solo ciò che ha sentito ». Un giorno incontra Narciso.
Se ne innamora subito, Ovidio scrive: «E più lo segue, più la brucia da presso la fiamma»; cerca di accostarsi a lui «con dolci parole». Ma la sua natura glielo impedisce. Narciso grida: «C’è qualcuno presente?», Eco può dire soltanto: «Presente». Ovidio aggiunge un altro urlo: «Vieni!», ma lei ripete le ultime sillabe. La scena continua sino a quando Narciso, ingannato dal ritorno di voce, si lascia fuggire un invito fatale: «Riuniamoci»; lei ripete: «Uniamoci» (in latino il gioco è fascinoso: «Huc coeamus» diventa «Coeamus»). La ninfa esce dalla selva e cerca di gettare le braccia al collo del bellissimo giovane. Ma lui fugge e le intima di tenere le mani a posto. Il distacco è accompagnato da frigide parole: «Piuttosto morire che darti la mia persona». Lei può rispondere soltanto: «Darti la mia persona».
La fanciulla se ne andò: Non le restava altro che morire. Ovidio ci ricorda che di lei rimase soltanto la voce. La dea Nemesi decise allora di punire Narciso. Lo fece imbattere in uno specchio d’acqua in modo che potesse scorgere almeno i tratti della sua bellezza. Il poeta evoca la scena: «Non sa cosa vede, ma per quello che vede arde, e lo stesso errore che ingannò gli occhi li eccita ». Narciso ammette: «Brucio d’amore per me stesso», ma non può far altro che soffrire e dialogare con la sua immagine, inafferrabile, sino a straziarsi. Giunge a confessare: «Non mi è dura la morte, giacché con essa finisce il dolore». E la sospirata fine arriva: dopo un dialogo surreale con i propri lineamenti riflessi, emette l’ultimo grido, guardando nell’acqua se stesso.
Il lamento di Eco prosegue: Nei boschi, sui monti, ma anche in un luogo inatteso. È un ripetersi eterno che piange quell’amore che vide e che mai fu. Narciso, al di là della testimonianza di Ovidio, farà scrivere Pausania e poi tanti altri; qualcosa affiora anche ai nostri giorni, come testimoniano i papiri di Ossirinco che nel 2004 rivelarono un racconto forse di Partenio. Di lui si occuperà la pittura, da Caravaggio a Poussin, da Turner a Dalì; la letteratura lo inseguì senza requie -divertitevi, tra i molti, con Gide, Wilde e Hesse- e Freud dovette occuparsi di «narcisismo». Anche la musica lo raccontò. Ma quest’arte preferì meditare più a lungo Eco che non il meraviglioso giovane. Perché i riflessi del suo amore infelice turbano ancora le orchestre.
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** Il mito:
Narciso è un bellissimo eterno adolescente condannato ad amare solo se stesso. Di lui si innamora la ninfa Eco, capace solo di ripetere le ultime parole del suo interlocutore. Ma al rifiuto di Narciso non le resta che la morte.
* Scritto da:
Armando Torno su Corriere della Sera Cultura.
Battuta di: se i quadri parlassero napoletano