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Il 10 febbraio 1986 inizia il Maxiprocesso di Palermo

Dietro questo risultato c'è la tenacia e il coraggio di uomini che pagheranno con la vita il loro essere, senza compromessi, al servizio dello Stato e della Legge.
Una seconda guerra di mafia (la prima risale al 1962) aveva insanguinato la Sicilia all'inizio degli anni Ottanta. Gran parte delle famiglie era stata decimata dalla furia omicida dei Corleonesi, capeggiati dal boss Salvatore Riina, e in questa mattanza erano stati coinvolti anche uomini di legge e delle istituzioni che avevano cercato di contrastare il fenomeno. In particolare, l'uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, nel 1982, aveva generato grande sdegno nell'opinione pubblica, motivando l'azione di alcuni magistrati riuniti nel pool antimafia dal giudice Antonino Caponnetto.
Tra questi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano impegnati a tentare un nuovo approccio nelle indagini. Lo scenario in cui si muovevano era contraddistinto dalla totale negazione del fenomeno mafioso o, nel migliore dei casi, di una sottovalutazione di esso. Un'inversione di tendenza c'era stata con la legge 646/1982 che introduceva il reato di associazione mafiosa, approvata otto mesi dopo il brutale assassinio del suo promotore, Pio La Torre.

Di qui si arriva alla preparazione del processo. A mettere sulla strada giusta il giudice istruttore Falcone sono i "pentiti", uno in particolare e il primo della storia: Tommaso Buscetta. Soprannominato il "boss dei due mondi" per la sua lunga permanenza negli Usa, Buscetta è stato per 40 anni in contatto con tutti i vertici delle famiglie mafiose, pagando a caro prezzo il suo allontanamento (due figli uccisi insieme ad altri familiari). Le sue rivelazioni, raccolte in 400 pagine di interrogatorio, svelano al magistrato ramificazioni e segreti della cupola siciliana.
Le richieste di rinvio a giudizio sono oltre 400 e per far fronte a questo numero si decide la costruzione di un'aula bunker a ridosso del carcere palermitano dell'Ucciardone. Viene realizzata una fortezza inespugnabile, con porte blindate e vetri antiproiettile. E' qui che la mattina di lunedì 10 febbraio si apre il più grande processo che sia mai stato realizzato contro la criminalità organizzata.
I numeri sono impressionanti: 474 imputati, di cui 221 detenuti, 59 a piede libero e 194 giudicati in contumacia, perché latitanti. Ad essi si aggiungono oltre 900 tra testimoni e parti lese e 180 difensori, senza contare i 600 giornalisti che seguono l'evento. Motivo per cui vengono adottate misure di sicurezza eccezionali, in primis l'impiego di tremila agenti a presidiare l'area, al fine di evitare attentati e fughe.

Tutto è stato studiato nei minimi dettagli per evitare che il procedimento si blocchi. In particolare, per scongiurare il rischio di defezioni, vengono nominati due pubblici ministeri, due presidenti di corte, due giudici a latere, mentre i giudici popolari sono sedici. Di fronte a loro centinaia di imputati seduti tra i banchi o rinchiusi dietro le sbarre, cui vengono contestati: 120 omicidi, traffico di droga, estorsione e il nuovo reato di associazione mafiosa.
La tensione regna fin dalle prime battute il 10 febbraio 1986 (38 anni fa) e da parte degli accusati ogni pretesto è buono per contestare e rallentare il dibattimento. Gli osservatori studiano i loro comportamenti e dalle loro reazioni s'intuisce il peso "politico" dei personaggi chiamati a rispondere: in religioso silenzio quando parlano i boss che contano; urla e contestazioni di fronte ai collaboratori di giustizia, ritenuti dei "traditori". Lo scenario muta profondamente all'annuncio dell'ingresso di Buscetta.

Per decisione del presidente di lui viene ammessa solo la ripresa televisiva di spalle e delle mani, procedura estesa anche agli altri pentiti. Comincia a parlare confermando quanto rivelato in precedenza al giudice Falcone, e pronunciando per la prima volta in un tribunale l'espressione «Cosa nostra». E' così che gli affiliati chiamano l'organizzazione, suddivisa in famiglie, ognuna con il nome del rione palermitano o del comune della provincia posti sotto il proprio controllo. Al vertice della piramide c'è la «commissione», formata dai «capimandamenti» espressi da tre famiglie.
La sua deposizione va avanti per una settimana e tra i punti salienti toccati, c'è l'escalation di violenza imputabile alla crescente tensione tra Corleonesi e vecchie famiglie del capoluogo siciliano. Messi con le spalle al muro, boss come Pippo Calò, Luciano Liggio e Michele Greco passano al contrattacco, cercando di screditare Buscetta ma senza fortuna. Altrettanto preziose sono le rivelazioni di altri due pentiti, Salvatore Contorno e Vincenzo Sinagra, grazie ai quali si viene a sapere che molte delle persone scomparse sono state assassinate dalla mafia e sciolte nell'acido per cancellare ogni traccia.

Particolari macabri che colpiscono i presenti e l'opinione pubblica nazionale. Il processo va avanti per due anni circa e il 16 dicembre 1987 arriva la sentenza. Su 474 imputati, 360 vengono condannati e tra questi ci sono pericolosi boss latitanti, come Riina e Bernardo Provenzano, catturati rispettivamente nel 1993 e nel 2006. In appello e in Cassazione le condanne si riducono a 60, tra la delusione di Falcone e Borsellino che cominciano a sentirsi abbandonati nella loro lotta. Gli attentati di Capaci e via D'Amelio nel 1992 non riescono a cancellare i risultati delle loro inchieste e del conseguente Maxiprocesso che vanno ben oltre le condanne effettive: da qui in avanti nessuno può più ignorare l'esistenza di "Cosa nostra" e sottovalutarne la forza pervasiva nel tessuto politico, economico e sociale.

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